Flessibilità. Ma è la parola giusta? A vedere i dati e le proiezioni sembrerebbe che da sola la flessibilità non basti a incrementare la produttività. Secondo i report di Censis e Istat neppure il welfare tradizionale sarebbe più sufficiente a contrastare le nuove difficoltà del mondo del lavoro.
Forme di esclusione sociale più sottile e immateriale, basate sulle ineguaglianze di accesso al sapere che si dispongono su vari piani. Occorrerebbe così uno sforzo di cambiamento culturale, un passaggio di modello o come si dice di paradigma. Migliorare la qualità del capitale umano, i percorsi della formazione adulta, i criteri dell’integrazione sociale, l’affiancamento della ricerca di capacità imprenditoriali. Una volta messo a punto questo nuovo set di strumenti, sarà possibile adeguarsi ai parametri contemporanei affrontando la flessibilità senza subirla.
Un percorso non semplice e non breve, almeno secondo i numeri. A fronte del tasso medio italiano, sceso dal 58,6% al 55,7%, e quello del Nord che dal 66,9% si attesta al 64,3%, tra il 2008 e il 2014 la percentuale di occupazione al Sud scende dal 46% al 41,8%, instaurando una divaricazione profonda. Non solo geografica ma anche generazionale. Se nel 2008 i lavoratori tra 25 e i 34 anni erano il doppio degli over 55 (5,5 milioni a fronte di 2,8) le stime del 2014 registrano la quasi parità delle due generazioni (4,1 milioni di adulti giovani e 3.977.000 occupati nati prima del 1960). Uno scenario preoccupante, che addirittura si complica per il lavoro al femminile. Se in Italia nel 2014 lavorava in media tra i 15 e i 64 anni quasi una donna su due (il 46,8%) il divario nelle aree del Paese è significativo: il 56,9% di donne al Nord contro il 30,3% del Sud. Come dire che su 9,3 milioni di donne al lavoro oltre 5 milioni sono residenti al Nord mentre poco più di 2,1 milioni sono in regime di occupazione al Sud.
E’ evidente che l’uscita non può essere affidata alla sola flessibilità, che rischia invece di essere controproducente, ma a percorsi di formazione adulta e costante. Soprattutto rispetto alle nuove tecnologie e alla rete che si dimostrano sempre più efficaci per l’integrazione sociale e professionale. In questa prospettiva gli effetti di quello che è stato compiuto sono già evidenti. La minore produttività del Sud non consente alle imprese di capitalizzare il vantaggio dell’inferiore remunerazione dei lavoratori. Inoltre, una struttura produttiva con limitato contenuto d’innovazione e bassa qualità del capitale umano non può essere significativa nello scenario competitivo attuale. Anche per questo occorre puntare a una trasformazione del welfare e degli investimenti, con la messa a punto di un modello capace di coniugare sanità e previdenza con i processi di valorizzazione di profili e di idee, con supporti di continuing education dispensata anche da agenzie non tradizionalmente preposte, con progetti di innovazione sociale per far uscire il Mezzogiorno d’Italia dai falsi miti in cui continua a vivere, soprattutto quando si parla d’impresa.