Pensioni, donne penalizzate
Previdenza

Pensioni, donne penalizzate

La grande maggioranza dei pensionati italiani, oltre l’80%, vive con meno di 2 mila euro al mese. E uno su quattro deve accontentarsi di meno di mille euro. Secondo gli ultimi dati dell’Istat, relativi al 2013, il 41,3% dei pensionati percepisce infatti un reddito da pensione inferiore a mille euro al mese, e il 39,4% si colloca tra i mille e i 2mila.

I redditi da pensione degli italiani, dunque, sono molto modesti. E ancora più bassi sono quelli delle donne, che pure sono la maggioranza dei pensionati italiani (52,9%). In media le loro pensioni sono pari a 13.921 euro all’anno contro i 19.686 degli uomini. Oltre la metà delle donne inoltre (50,5%) riceve meno di mille euro al mese, a fronte di circa un terzo (31%) degli uomini.

I motivi che stanno dietro a questa differenza sono molti, a cominciare dai redditi da lavoro che, come noto, per le donne sono inferiori anche a parità di qualifica. Spesso inoltre le lavoratrici hanno una carriera più discontinua e le interruzioni (dovute alla maternità e alla cura dei figli, ma non solo) pesano anche sulla pensione, perché ad esse corrispondono dei “buchi” nella contribuzione. Attualmente, infine, le donne vanno in pensione a un’età inferiore a quella degli uomini: una situazione che sarà superata solo quando andrà a regime l’ultima riforma delle pensioni.

Le donne dunque, come e forse più degli uomini, dovrebbero prendere più a cuore il tema del loro futuro previdenziale, provvedendo per tempo e con una adeguata pianificazione finanziaria che permetta di arrivare all’età della pensione sapendo che potranno contare su un reddito adeguato.

Intanto le lavoratrici italiane hanno dato una prova, se non altro, di realpolitik, aderendo in massa alla cosiddetta “opzione donna”, che consente di andare in pensione in anticipo, in cambio di una decurtazione non indifferente dell’assegno.

L’opzione, che è una misura temporanea e dovrebbe scadere alla fine del 2015, consente alle donne di andare in pensione a 57 anni di età se dipendenti e 58 se lavoratrici autonome, purché abbiano versato almeno 35 anni di contributi. Il loro assegno però viene calcolato con il metodo contributivo, più penalizzante rispetto al metodo retributivo: in media si può stimare che la rendita risulti inferiore di almeno il 10-15% rispetto all’assegno pieno.

Nonostante questo svantaggio, migliaia di donne (quasi 9 mila soltanto nei primi dieci mesi del 2014) hanno preferito scegliere questa strada. E ha suscitato proteste la chiusura dei termini per presentare la domanda, anticipata dall’Inps di 12 o 18 mesi. Secondo l’istituto per la presentazione delle domande occorre tener contro delle cosiddette “finestre mobili”, il tempo cioè che intercorre tra la domanda e il pensionamento, e che è pari a 12 mesi per le dipendenti e a 18 mesi per le autonome. E quindi il termine del 31 dicembre 2015 andava anticipato rispettivamente di un anno e di un anno e mezzo.

La questione è ancora aperta, e si attende una parola definitiva dal Governo e dallo stesso Inps.

Immagine di copertina Roberto Trm

Scritto da:Newsroom

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