A gennaio 2016 si attueranno due misure importanti per i futuri pensionati:
• aumento dei requisiti legati all’aspettativa di vita (4 mesi in più del 2015) che porterà l’uscita per vecchiaia nel settore privato a 66 anni e 7 mesi per gli uomini e a 65 anni e 7 mesi per le donne;
• diminuzione dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo
Contemporaneamente l’Istat certifica due realtà significative:
• la crescita elevata degli over 55 al lavoro pari a 800.00 unità in 3 anni;
• la diminuzione di altri 800.000 unità degli occupati under 35 (quasi 600.000 tra i 25 e i 34 anni)
Il Presidente dell’Inps, Tito Boeri, e il Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, hanno aperto ad una modifica della legge Fornero sulle pensioni per aiutare il rilancio dell’occupazione che si sta riscontrando in questi giorni.
Il tema non sarà affrontato nella prossima legge di Stabilità (da presentare entro il 15 Ottobre), ma a partire dal prossimo anno. Il provvedimento secondo Renzi dovrà comunque essere a “costo zero” per lo Stato. A costo zero significherebbe che il costo di queste coperture dovrebbe essere coperto con risparmi equivalenti realizzati nello stesso sistema previdenziale.
Si stanno valutando azioni per l’estensione dell’”Opzione Donna” (pensione a 57 anni con il ricalcolo contributivo e 35 anni di versamenti che comporta in media una riduzione dell’assegno del 25/30%) e per un settimo intervento di salvaguardia per i lavoratori esodati.
Altre ipotesi al vaglio sono le seguenti:
• Incremento delle penalizzazioni – per chi decide di andare in pensione prima di quanto stabilito il taglio passerebbe dal 2% fisso per ogni anno di anticipo (Proposta Damiano-Baretta) ad un progressivo aumento dello stesso: 2% per un anno di anticipo, 5% per due anni e 8% per tre anni.
Altra idea in merito, come spiegato da Pier Paolo Baretta (sottosegretario al ministero dell’Economia in un’intervista al Corriere della Sera del 04/09/2015), è quella di legare il taglio dell’assegno al livello del reddito: se si prende una pensione da 1.500 euro, ad esempio, il taglio sarà del 2%, se la pensione è da 2.500, il taglio sarà un po’ più alto. Oppure si è pensato di introdurre la flessibilità in modo graduale. Nel 2015 si consente di uscire con un anno di anticipo, nel 2017 con due anni e nel 2018 si sale fino a tre. Infine potrebbe essere ripresa la proposta inziale: una pensione più ricca per chi va in pensione dopo i 66 anni.
• Riscatto della laurea modulare – possibilità di decidere quanto versare e quindi di quanto far crescere la propria pensione. Oggi chi richiede tale istituto dopo qualche anno dall’inizio dell’attività lavorativa si trova a pagare un conto elevato perché il versamento è calcolato sulla base dell’ultimo stipendio ricevuto.
• “Staffetta” generazionale – l’ipotesi prevede di sostituire una parte delle persone che maturano i requisiti pensionistici con l’ingresso di giovani. Così facendo si riuscirebbe a incrociare il tema dell’occupazione giovanile e dell’investimento in conoscenza delle imprese. Tali lavoratori beneficerebbero di una pensione “tagliata” in misura corrispondente alla percentuale di part time di lavoro svolto. In pratica incasserebbero una pensione ridotta e uno stipendio per la prestazione lavorativa. Il tutto a beneficio delle casse dell’Inps, che pagherebbe – in un primo momento – una pensione più bassa e continuerebbe a incassare i contributi sulla parte di stipendio erogata all’interessato, oltre alla parte relativa alla retribuzione del neo assunto.
Naturalmente, una volta che il lavoratore-pensionato decidesse di cessare definitivamente il proprio rapporto di lavoro si vedrebbe ricalcolare il trattamento pensionistico, considerando anche le ulteriori retribuzioni percepite.
• “Scivoli” per i lavoratori – Oggi sono gli stessi pre-pensionati a pagarsi i contributi con i soldi ricevuti dall’azienda che concede agli stessi di andare in pensione anticipata (in questo caso pagano le tasse sia lavoratori che datori di lavoro). L’ipotesi è che sia direttamente l’azienda a versare i contributi, anche se quello non è più un suo lavoratore tecnicamente. La somma inoltre non solo non sarebbe tassata ma potrebbe essere scaricata dalle tasse;
• Quota 100 – E’ la proposta che risulta essere più gradita ai pensionandi. La soluzione vedrebbe l’uscita dal lavoro esattamente come avveniva per la “vecchia” pensione di anzianità, ma con qualche anno di ritardo. Età minima 60 anni a cui aggiungere 40 anni di contributi, con 61 anni servirebbero invece 39 anni di versamenti e così via. Una delle variabili inserite è la c.d. quota 41: con 41 anni di versamenti si lascia il lavoro indipendentemente dall’età (come accadeva con i “quarantisti”). Oggi servono 42 anni e 6 mesi per gli uomini e 41 anni e 6 mesi per le donne per accedere alla pensione anticipata. E’ una delle soluzioni più “difficili” da attuare a causa degli elevati costi: si stima una spesa superiore ai 10 miliardi;
• Prestito pensionistico – Il prestito pensionistico fu messo in campo dall’ex Ministro del lavoro Giovannini: i lavoratori prossimi alla pensione riceverebbero un prestito di circa 700 euro che restituirebbero, maturati i requisiti per la pensione, con piccoli prelievi mensili. Detta anche “mini pensione”, è una soluzione “low cost”: la stima è di circa 1 miliardo. La critica che gli viene mossa è che si rischia di non risolvere il problema, perché ci sarebbero comunque molte persone che riceverebbero una cifra che non consentirebbe loro di vivere dignitosamente;
• Opzione Uomo – E’ un’altra proposta che è stata fatta alla Commissione Lavoro della Camera dei Deputati. In pratica verrebbe esteso il regime contributivo delle donne (la famosa “opzione donna”) a tutti (anche agli uomini): prepensionamento a 57 anni e 3 mesi (58 e 3 mesi gli autonomi) con 35 anni di contributi. L’assegno percepito sarebbe però calcolato interamente con il meno vantaggioso criterio contributivo;
L’obiettivo di questi interventi sarebbe quello di aiutare la ripresa dell’occupazione giovanile ma anche di evitare il ricalcolo contributivo che comporterebbe un taglio dell’assegno fino al 30% perché si terrebbe conto non del livello degli ultimi stipendi ma dei contributi versati.
L’emergenza però attualmente, secondo anche le stime della Ragioneria generale dello Stato, si chiamerà presto spesa sanitaria di lungo termine proprio per la cura socio-sanitaria destinata alla quota sempre crescente di popolazione più anziana.